SI CELEBRA L’11 FEBBRAIO LA GIORNATA DEDICATA ALLE DONNE NELLA SCIENZA, ISTITUITA DALL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE

IPAZIA D’ALESSANDRIA, PRIMA SCIENZIATA NELLA STORIA

DI ADRIANO PETTA

 

Chi ha detenuto il potere – politico, religioso, culturale – per milleseicento anni ha fatto di tutto per cancellare le sue tracce, il suo pensiero. Ma Ipazia fu una donna di tale levatura morale e culturale, che questo progetto è fallito… e le sue orme sono rimaste impresse nella polvere dei secoli. L’istituzione che nel mondo intero ha fatto e sta facendo di tutto per rendere omaggio a Ipazia,  è l’Accademia delle Belle Arti di Lecce
Ipazia (370÷415 d.C.) fu l’erede della Scuola alessandrina: fu filosofa, matematica, astronoma, antesignana della scienza sperimentale. Era la figlia del matematico Teone, che operava nella biblioteca di Alessandria d’Egitto, dove erano custoditi oltre 700.000 volumi: in quella biblioteca c’era il sapere dell’umanità, libri di astronomia, anatomia, filosofia, botanica, matematica… ogni campo dello scibile umano, proveniente da tutto il mondo, tradotto nella lingua dei colti: il greco.
La biblioteca di Alessandria d’Egitto divenne la prima biblioteca dell’umanità il cui accesso fosse consentito anche al popolo… e non solo agli studiosi. Sopra la biblioteca, nel tempio del Serapeo, davanti alla statua del dio Serapide, c’era una colonna di marmo su cui svettava il simbolo dell’accordo fra la Ragione e la Religione, fra la Scienza e gli dèi pagani: un mesolabio (uno dei primi strumenti di calcolo nella storia dell’umanità, simile al regolo calcolatore in uso fino a pochi decenni fa). I sacerdoti che ufficiavano nel tempio si facevano chiamare sacerdoti-filosofi: una volta terminati i loro riti in onore del dio, scendevano nella biblioteca e si univano agli studiosi, per approfondire la conoscenza della matematica, della filosofia, dell’astronomia.
Era l’anno 391. Nella biblioteca operavano il matematico Teone e la figlia Ipazia, una bellissima ragazza di 21 anni, a detta del padre dotata di grandi capacità intellettuali e che un giorno lo avrebbe superato.
Da sette secoli Alessandria d’Egitto era il faro della scienza e del sapere del mondo intero. Nella biblioteca di Alessandria era contenuto il sapere universale: vi si confutavano dogmi e gli assoluti, in una ricerca dura ed emozionante attraverso la relatività delle osservazioni, del ragionamento, di uno studio continuo e scevro da condizionamenti del potere. Ipazia e la sua scuola si eressero ad ultimo baluardo che la Ragione opponeva all’avanzata della Religione… La libertà di pensiero è quello per cui ha combattuto e dato la vita Ipazia, la cui morale, la cui etica, era costruita giorno per giorno nel massimo rispetto dell’uomo.

La più importante comunità scientifica della storia aveva operato là, nel Mouseîon prima e nella biblioteca “figlia” dopo: lì avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo, Erone, Ctesibio, Maria l’Ebrea (colei che per prima pose le fondamenta della chimica moderna)… e tutti i geni che hanno gettato le basi del sapere scientifico universale. Nei suoi settecento anni la Scuola alessandrina aveva raggiunto vette talmente elevate nel campo scientifico, che sarebbe bastato non dare alle fiamme la biblioteca e lasciar vivi e liberi di studiare Ipazia e i suoi allievi… per acquisire 1200 anni in più di progresso.

Ma su Ipazia (e sull’intera umanità) si abbatté la più grossa delle sventure: l’ascesa al potere della Chiesa Cattolica e lo “scellerato patto di sangue” stipulato con l’impero romano agonizzante. Un editto dopo l’altro, gli imperatori romani misero fine alla libertà di pensiero tipica del mondo ellenistico. Aristarco di Samo, secoli prima aveva ipotizzato per primo che era la Terra a girare attorno al Sole: la sua teoria non ottenne il favore della scuola alessandrina… ma non per questo fu messo al bando o bruciato vivo. Con gli editti di Teodosio il Grande (editti imposti dal vescovo Ambrogio di Milano), oltre alla soppressione del paganesimo, dei Misteri Eleusini, delle Olimpiadi… ebbe inizio la cancellazione delle biblioteche, della scienza e degli scienziati, l’annullamento del libero pensiero, della ricerca scientifica (nei concili di Cartagine fu proibito a tutti, vescovi compresi, di studiare Aristotele, Euclide, Tolomeo, Pitagora etc.). Vennero bruciate le biblioteche di Atene, Pella, Pergamo, Antiochia, Efeso.
In poche decine di anni il piano scellerato venne quasi interamente realizzato. Ma Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e Cirillo – i giganti del nascente impero della Chiesa (che sarebbero poi stati elevati al rango di padri fondatori nonché al regno dei santi), a intralciare la loro strada trovarono una ragazza di una rettitudine incrollabile: la nostra Ipazia.

In quel 391 d.C. vescovo e patriarca di Alessandria era lo zio di Cirillo, Teofilo: erano stati appena promulgati gli editti dall’imperatore Teodosio che mettevano fuorilegge il paganesimo. Teofilo sobillò la folla cristiana e, con l’appoggio delle guardie dell’imperatore romano, guidò l’assalto al tempio di Serapide bruciando tutto, assieme ai suoi fedeli monaci: tempio, biblioteca, il sapere dell’umanità… Con un colpo di piccone fece a pezzi la statua del dio e il mesolabio, simbolo della tolleranza fra la Ragione e la Religione.
Ebbe inizio la caccia agli ebrei, ai novaziani, ai pagani: i loro templi, le loro case, i loro riti, la loro cultura, cominciarono ad essere bruciati, cancellati. Il nemico numero uno continuava ad essere il libro, il Sapere, la Conoscenza.
Ipazia continuò a studiare, ad insegnare. Assieme ai suoi allievi proseguiva nell’indagine filosofica, nel neoplatonismo, nelle scienze, nella matematica, nell’astronomia. E alla fine della giornata, si gettava sulle spalle il tribon… il mantello nero dei filosofi, e usciva per le strade di Alessandria e – con ingegno oratorio e straordinaria saggezza – insegnava alla gente umile un po’ di matematica e d’astronomia, ma soprattutto l’uso della Ragione. Ipazia era pagana… ma in realtà non apparteneva a nessun dio, perché per lei qualunque religione, qualunque dogma, era un freno alla libera ricerca, e poteva rappresentare una gabbia che non permetteva d’indagare liberamente sulle origini della vita e sul destino dell’uomo.
La sera, quando tornava a casa, esausta dopo una durissima giornata di studio e d’insegnamento, si metteva a costruire strumenti scientifici per “trasferire la teoria nella materia”. E fu così che realizzò l’idroscopio, l’aerometro e l’astrolabio (lo strumento che precedette il sestante), sfruttando un rozzo progetto di Ipparco.

Grazie alla sua rettitudine, a lei si rivolgevano anche politici, magistrati, prefetti imperiali, per avere un parere. Era “pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni”, e questa sua natura – oltre che procurarle tanto credito presso il popolo – glielo procurò anche presso i capi politici di Alessandria i quali, “ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei”.

Era stimata e apprezzata dal prefetto imperiale Oreste, il quale provò a difenderla, riuscendo a riottenere persino delle sovvenzioni da parte dell’imperatore d’oriente (da cui dipendeva Alessandria) per la sua scuola. Ma le mire espansionistiche del vescovo e patriarca Cirillo videro in quest’evento… l’ultimo pericolo. Il vescovo si avvaleva di un corpo di guardia di eccezionale ferocia: i monaci parabolani, capitanati da Pietro il Lettore, suo amico e compagno di studi nel monastero della montagna della Nitria. Cirillo cominciò a predicare nella cattedrale cattolica di Alessandria, il Cesareo (l’antico tempio pagano), additando alla folla cristiana quella donna devota in ogni circostanza alla magia, agli astrolabi e alla musica, tuonando contro Ipazia perché aveva stregato molti ingenui con le sue arti sataniche, compreso il prefetto augustale Oreste.
E i fedeli cristiani echeggiarono, urlando che bisognava uccidere la pagana che aveva stregato le folle e lo stesso governatore, con i suoi incantesimi.

Cinquecento monaci parabolani diedero la caccia a Ipazia, la trascinarono nella cattedrale, la denudarono e la immobilizzarono sull’altare di marmo bianco, poi si scagliarono su di lei, facendola a pezzi con dei gusci taglienti, la smembrarono viva, e infine Pietro il Lettore, mentre in Ipazia ancora il cuore palpitava, le cavò gli occhi con le mani. Poi trascinarono per le vie di Alessandria i poveri resti smembrati, fino al Cinerone, dove si bruciava la spazzatura, e li incenerirono, al grido della definizione di come Agostino definiva la donna: “Immondizia!”.
Questo delitto segnò la fine del paganesimo, il tramonto della scienza e della dignità stessa della donna, e la fine della più importante comunità scientifica dell’umanità.

I libri di Ipazia e di tutta la Scuola alessandrina furono bruciati (con la sola eccezione del suo commento alla Syntaxis). I discepoli della scienziata scomparvero e di loro, del loro pensiero, delle loro opere, nulla è rimasto. Alcuni riuscirono a emigrare in India (tra cui Paulisa, autore dell’opera astronomica Paulisa siddhānta), importandovi le ultime scoperte di trigonometria e astronomia. Ci è pervenuta, però, una parte dell’opera dell’allievo prediletto di Ipazia: Sinesio di Cirene, vescovo di Tolemaide. Dalle sue lettere indirizzate alla maestra si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto, all’analisi teorica dei problemi di fisica e di astronomia, faceva seguire la sperimentazione pratica. Mentre la sua maestra era ancora in vita, Sinesio scriveva: L’Egitto tien desti i semi di sapienza ricevuti da Ipazia.
Le testimonianze antiche su Ipazia sono offerte, principalmente, da quattro storici: Socrate Scolastico (Storia Ecclesiastica), Filostorgio (Storia Ecclesiastica), Sozomeno (Storia della Chiesa) – tutti contemporanei di Ipazia, e Damascio (ultimo direttore dell’Accademia platonica di Atene, che scrisse di lei 50 anni dopo il suo massacro). Fra le opere di matematica e astronomia che compose Ipazia, le più importanti furono il Commentario alla Aritmetica di Diofanto, Commentario alle sezioni coniche d’Apollonio Pergeo, Commentario al Canone astronomico.
Il nome di Ipazia ha attraversato i secoli raggiungendo le nostre vite con un impeto giovanile, un sorriso, un incutere fiducia nelle qualità dell’uomo, come se fosse viva in mezzo a noi, donna dei nostri giorni e grande scienziata.
Ma forse è veramente viva, forse non è solo un ricordo che abbraccia le nostre anime: forse è viva nelle speranze che muovono l’umanità, nella ricerca di una vita senza violenze, nel libero sviluppo di tutti i campi del sapere e nella condivisione delle conoscenze, è come se fosse viva anche fisicamente… nube fremente di atomi che partecipa dei nostri corpi e trasmette un impulso di vita.


Per Ipazia, liberare la scienza voleva dire liberare l’uomo. Le donne che tentarono di studiare e d’inserirsi nel mondo della filosofia e della scienza dovettero combattere su due fronti: il primo risaliva ai tempi di Platone, che le considerava esseri inferiori per natura (mentre Aristotele sosteneva che la donna era uno scarto della natura), il secondo fu il ruolo secondario assegnatole proprio dai padri fondatori della Chiesa (Sant’Agostino… e San Giovanni Crisostomo, che affermò che la donna porta il marchio di Eva e che Dio non le ha concesso il diritto di ricoprire cariche politiche, religiose o intellettuali).

Se Ipazia fosse stata uomo, l’avrebbero solamente uccisa. Essendo donna, dovevano farla a pezzi, nella cattedrale cristiana, per rendere quel massacro simbolico d’un sacrificio. Per escludere, nel cammino dei secoli a venire, metà del genere umano.
Ma la nostra Ipazia, dalla sua nube fremente di atomi, sorride finalmente felice nell’osservare il lungo tunnel del LHC che si snoda sotto il lago di Ginevra… l’acceleratore di particelle più lungo dell’intero pianeta che sta scoprendo la natura delle origini della vita, affidato ad una scienziata italiana, Fabiola Gianotti.

Ipazia ci ha insegnato che la via della ragione è la via a cui ha diritto ogni essere umano. Quando composi l’ultimo capitolo di Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo, il cammino era lastricato di gorghi d’infernale incandescenza; mentre scrivevo, piangevo, perché io ero l’allievo perdutamente innamorato della sua maestra, rifiutato perché lei non aveva tempo per dedicarsi all’amore, disperato perché non ero riuscito a proteggere l’ultima voce libera, l’ultima luce femminile di sapienza dell’ellenismo. Fui capace solo di affidare la storia a un papiro… mentre la nuvolaglia che si levava dal Cinerone si dirigeva verso il Faro, attraversando la caligine sospesa sul porto preistorico, poi si apriva, diventava luminosa, cominciava a volteggiare verso il mare aperto, verso gli oceani lontani, verso la purezza dei cieli alti della nostra Ipazia.


Roma, 11 FEBBRAIO 2019